Ogni religione ha bisogno della sua liturgia. E assieme a riti, cerimonie e gesti, hanno un ruolo centrale le parole. Anche il capitalismo come ogni religione ha le sue parole liturgiche, che dalle orecchie si insinuano nei cervelli e infine si sedimentano nei cuori dei devoti.

Gli imprenditori, gli amministratori delegati, gli azionisti sono i sacerdoti del capitalismo, e come tutti i prelati di tutte le religioni sono quelli che godono i massimi benefici senza fare nulla. Come tutte le religioni, il primo scopo del capitalismo è espandersi: senza la questua dei devoti questi privilegi andrebbero a farsi benedire (da un’altra religione). Per diffondere il culto del consumo il capitalismo ha i suoi missionari (manager), i suoi sacerdoti (businessmen), i suoi chierichetti (startupper) e via discorrendo. Nella loro ascesa verso l’agognato CdA, in attesa del bonifico finale che gli sarà elargito da Steve Jobs in persona, diffondono il verbo (anzi il complemento oggetto, perché qui si dispensano beni materiali, mica chiacchiere) con le parole che tutti noi, devoti o atei, andiamo ripetendo come mantra: target, mission, influencer.

Sono parole orrende, che trasformano concetti pacifici in azioni ostili: quelli non sono più i tuoi clienti, sono il tuo target; tu non hai più un obiettivo nella vita, hai una mission; tua zia non è più una pettegola, è una influencer.

La più brutta tra queste parole che siamo costretti a mormorare come bonzi se vogliamo lavorare è marketing. Non a caso è una delle parole centrali del lessico capitalistico. Letteralmente marketing significa vendere, ma non si riferisce a quel momento in cui un commerciante passa un bene a un acquirente e questi gli restituisce in cambio una somma di denaro. Si riferisce a tutto quello spazio-tempo che intercorre tra la Creazione e quel momento. Racchiude in sé tutto quel processo di trasformazione di un banale oggetto d’uso comune in un bene dotato di senso e anima. È la transustanziazione del nulla: pane e vino si trasformano in finger food e wine tasting. È sempre pane e vino, ma dentro c’è la salvezza, ci sono il corpo e il sangue di Cristo, come avviene nella teologia cattolica. Ci sei tu, dentro quell’apericena. Non ora, che sei un morto di fame e non conti niente. Ma domani, quando sarai ammesso al circolo esclusivo del top management.

Ma questa parola racchiude un segreto osceno, e cioè che tutto si può e si deve vendere, anche ciò che non lo meriterebbe. Questa parola che in origine indicava un mezzo, ora è diventato il fine. Non si fa più marketing per promuovere, si fa marketing per vendere, cioè “we make marketing for marketing”. L’osceno segreto della parola marketing e dell’azione marketing è che non importa cosa vendi. Importa che lo vendi. Quando il capitalismo deciderà di affrontare seriamente il problema dei rifiuti tossici lo farà col marketing. Ci convincerà che per essere veramente fashion non potremo non avere in casa un barattolo di scorie nucleari. Magari in edizione limitata firmata da una nota influencer di moda.

È brutto il marketing. Col marketing chi fa il prodotto peggiore può vincere la competizione con chi lo fa migliore. Barando. Marketing è una parola esotica per non dire truffa. Se un prodotto è buono, non serve il marketing: basta la promozione. Che parola bellissima. Negli anni migliori della nostra vita è la parola più bella che aspettiamo di sentire. A giugno, davanti a quelle bacheche, quando le zucchine sono in fiore, leggiamo i risultati scolastici e ci emozioniamo se il vento ci sussurra “promozione” e davanti a noi si spalancano tre mesi di spensieratezza e di ozio totale.

Ancora meglio se la promozione è culturale, con quella radice della parola che allude al deretano, magari al bel sederone di una bella signora, bello da promuovere, da fargli passare l’esame di maturità, come una pera o una pesca che è pronta da essere colta e mangiata.

Sforziamoci di fare più promozione e meno marketing. Scegliamo di aiutare i prodotti di qualità a vendere. Cerchiamo di essere più filosofi e meno bigotti. Usiamo le parole giuste.

Disarticoliamo il capitalismo.

L’immagine in copertina è un dipinto di Timo Sälekivi che si intitola Weeping houses.